Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 3, 13-17)
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».
La trama l’avevano pensata alla perfezione: di questo Gesù deve sparire tutto, non ci deve essere più nessuna traccia. Ha osato mettersi contro la legge e la legge lo seppellirà, lo farà scomparire nel nulla. Così aveva pensato il Sinedrio, così pensano ancora oggi tanti nemici dei cristiani: così doveva essere di don Francesco Bonifacio, per i miliziani di Tito.
La morte è il primo passo. Chi si spingeva fino sulle mura di Gerusalemme quel giorno di Parasceve, quel fine settimana concitato, poteva vedere la morte impietosa dei tre delinquenti che poco prima avevano disturbato la vigilia della festa e fatto deviare il traffico. Una scena come tante che per altri 40 anni si sarebbe continuato a vedere fino al crollo di Gerusalemme.
Il suo corpo avevano deciso di seppellirlo in una fossa comune. C’è sempre una qualche foiba in cui si sparisce senza lasciare traccia. Tanto più che il sangue di quel Gesù era infetto, aveva appiccicata sul rosso vivo la maledizione di Dio. Se qualcuno lo avesse toccato non avrebbe potuto partecipare alla festa di Pasqua imminente.
Ma Dio ha un altro piano. Nel Sinedrio c’è un uomo, che aspetta il Regno di Dio, che ha davanti una meta, una prospettiva; ha sentito Gesù dire che il Regno di Dio è per gente che ha grinta, non è per le mezze cartucce. Ha sentito il perentorio invito di Gesù: il Regno è qui, occorre cambiare testa e credere alla buona notizia. Lui ci sta. Non è riuscito a fermare le intenzioni omicide del Sinedrio, ma proprio perché si affida al futuro di Dio, al suo Regno, mentre Gesù esala l’ultimo respiro non si perde d’animo e va immediatamente da Pilato a chiedere il corpo di Gesù.
Non sarà scaraventato in una fossa comune, ma sepolto in un sepolcro nuovo. Giuseppe d’Arimatea rimette in discussione la sicumera del Sinedrio, diventa l’uomo della Provvidenza, con la missione di custodire e di difendere il corpo di Gesù e di prepararne la sepoltura in maniera tale che le bende, le fasce, la sindone, il sudario, gli aromi versati sul corpo risulteranno i segni inequivocabili che Giovanni e Pietro vedranno e che metteranno a disposizione motivi razionali per fare l’atto di fede nella risurrezione: Giovanni entrò, vide e credette.
Anche don Francesco Bonifacio ha avuto il suo Giuseppe d’Arimatea, che lo ha saputo trarre dall’annientamento delle foibe, anche se il suo corpo non fu più ritrovato. Il suo corpo sarà nella resurrezione di Dio, come ne ha anticipato il futuro la risurrezione del corpo di Gesù.
Non è così del patibolo, di quei legni orrendi. “E questi legni dove li buttiamo?” Pochi metri più sotto quella specie di protuberanza del terreno a forma di cranio, Golgota appunto lo chiamavano, c’è un anfratto naturale. “Non useremo assolutamente mai questi legni per fare legna da fuoco. Hanno addosso un sangue appiccicoso, una impurità blasfema. Dentro quella caverna li gettiamo. Li abbiamo sempre buttati lì.” E lontani dagli occhi degli uomini dovettero restare almeno per tre secoli. Le rovine di Gerusalemme sono passate su quei luoghi come un rullo compressore.
L’orrore, la vergogna, il dispetto di avere un fondatore della religione giustiziato su una croce, brucerà nell’immaginario umano, ebreo, greco e romano. Scandalo, pazzia, stupidità, assurdità erano le pietre che continuamente gravavano sulla coscienza e affioravano al sentimento ogni volta che si parlava del Crocifisso. Intanto nella coscienza dei cristiani quella croce diventava un simbolo, un’ancora, una strada necessaria, anche se discriminante.
La regina Elena farà scavare tutta l’area del Calvario e ritroverà la croce. La croce del Signore Gesù non è una vaga, anche se assurda, idea di dolore, non è un sentimento come il dispiacere, un vago senso di pena, ma un vero pezzo di legno, un oggetto barbaro su cui è stato inchiodato Gesù. Eccolo: è proprio di legno come ogni trono, è il trono da cui Dio oggi ancora ci governa e ci salva.
Ma noi oggi vogliamo ancora contemplare Lui su quel legno perché a noi interessa sì la croce, ma soprattutto l’amore di Dio su quella croce. Non misuriamo la qualità della nostra fede prima di tutto dalla forza delle nostre convinzioni, dalla generosità dei nostri gesti, dalla soddisfazione del nostro progresso umano e spirituale, dal grado della nostra serenità o dalla capacità di resistere alla nostra inquietudine, ma dal rinnovare la nostra disponibilità a colui che sulla croce dà la sua vita per noi, per me, per te.
E contemplandolo capiterà a noi come agli ebrei stregati e avvelenati dai serpenti del deserto, noi che siamo avvelenati dai serpenti della vita, dai serpenti del peccato. Guardiamo a Lui. Questo uomo innalzato tra cielo e terra è la nostra unica speranza.