Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 13,54-58)
In quel tempo Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi.
Celebriamo oggi San Giuseppe, che ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo, e che così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa di cui la Vergine Santa è figura e modello»
Giuseppe esercita questa custodia con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende. Dal matrimonio con Maria fino all’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme, accompagna con premura e tutto l’amore ogni momento. È accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita, nel viaggio a Betlemme per il censimento e nelle ore trepidanti e gioiose del parto; nel momento drammatico della fuga in Egitto e nella ricerca affannosa del figlio al Tempio; nella quotidianità della casa di Nazaret, nel laboratorio dove ha insegnato il mestiere a Gesù, che aveva imparato a guadagnarsi da vivere da san Giuseppe, se i vangeli lo ricordano come il figlio del carpentiere. Da ragazzo non giocava soltanto, non viveva facendo passerotti di creta da far volare miracolosamente, come dicono alcuni vangeli apocrifi. Gesù torna nella sua patria, dove era cresciuto, dove era stato per trent’anni, dove aveva fatto il falegname. Gesù aveva imparato ad affrontare il rischioso mestiere di vivere che tocca ad ogni uomo e donna: la fatica, la quotidianità, la ripetitività, le relazioni, le scoperte, le incomprensioni.
Ha vissuto quelle cose che noi cerchiamo di schivare, o per lo meno non apprezziamo, perché non hanno significato, cioè la quotidianità. Importantissimi quei trent’anni! Ed entra nella sinagoga, dove ha imparato a leggere, a scrivere, ha imparato la Parola di Dio, è cresciuto; dove ha tutti i suoi ricordi, i suoi compagni. E la gente rimane stupita e alla fine lo rifiuta
Noi diciamo spesso gli oscuri anni di Nazareth, anche perché nei confronti di Gesù abbiamo ancora la stessa mentalità dei suoi compaesani. Anche noi non capiamo perché Gesù ha vissuto la maggior parte della sua esistenza, in un paese anonimo, in un’esistenza incolore; millenni di attesa, secoli di preparazione e arriva il messia, e per trent’anni: niente. Non fa, non dice nulla che non sia strettamente normale; quando il vangelo ci dice che lui è il figlio del carpentiere, ci fa capire che era subentrato nel lavoro del padre. Non è un lavoro qualificato: aggiustava gli attrezzi, gli utensili da lavoro, costruiva pezzi che potevano rimettere a posto mobili disfatti; viveva lavorando per altri. Gli oscuri anni di Nazareth, sono una rivelazione del modo con cui Dio si inserisce nel nostro quotidiano e lo vive in un modo diverso.
Dio dà un grande significato positivo, profondo al lavoro quotidiano. Il lavoro è il cantiere allora del Regno di Dio; è in esso che la persona si allena, si forma al senso della vita, della collaborazione, della solidarietà, della concretezza, dell’approfondimento della sua umanità, della sua dignità. Quanto siamo ingiusti se lasciamo la gente senza lavoro; le viene a mancare oltre che la possibilità di vivere, la stessa dignità umana. La festa di oggi ci lascia un grande impegno per tutti e per le istituzioni: ridare e offrire un lavoro dignitoso per tutti. È un compito che ci deve vedere impegnati tutti, da persone e da cristiani.